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Sergio Bruni

(Villaricca, 15 settembre 1921 – Roma, 22 giugno 2003)
Come spiegare a un bambino della Napoli degli anni 2020 chi era, anzi chi è per sempre, Sergio Bruni, che all’anagrafe si chiama Guglielmo Chianese? Forse con quello spezzone di «Operazione San Gennaro», il film di Dino Risi del ‘66 in cui Totò, Nino Manfredi & Co. tentavano di rubare il tesoro del Duomo approfittando del momento in cui Bruni saliva sul palco del Festival di Napoli, città che si bloccava per ascoltare la sua voce, diventava un deserto come all’epoca del coronavirus per godersi il suo filo di voce che valeva dieci volte gli acuti e gli allucchi di tutti i tenorini eunuchi di ieri, oggi e domani. Fu Eduardo De Filippo a definirla «’a voce ‘e Napule», cogliendo in pieno l’anima di quei fonemi antichissimi, in cui l’eco rurale si confondeva con il progresso urbano, e la sua città, anzi la sua gente.

Credits immagine: Courtesy Domenico Matania

Bruni è stato la voce della nazione Napoli come Oum Kalsoum dell’Egitto, Amalia Rodrigues del Portogallo, Edith Piaf della Francia, Johnny Cash degli Stati Uniti. Nell’era della globalizzazione, le melopee cariche di suggestioni contadine e di fioriture popolari di Bruni sembreranno a qualcuno anche «troppo» popolari, magari persino «volgari»: sono radici no global, lo zoccolo duro di un’arte antichissima, verace, resistente. La storia di Bruni sfugge alle logiche del sistema discografico, è basata sull’identificazione tra quell’ugola e la sua terra, porose entrambe, capaci di filtrare e fare proprie emozioni, vicende, culture apparentemente distanti.

Certo, c’è la storia dello scugnizzo arrivato dalla campagna per combattere i nazisti nelle Quattro Giornate e poi conquistare i Festival di Napoli e di Sanremo, il cinema di Billy Wilder, il mondo (per Aznavour è stato «un caposcuola tra i più grandi con Sinatra, Trenet, Chevalier»). Più dei dischi venduti a milioni, dei Festival di Napoli vinti (nel ‘62 con «Marechiaro, Marechiaro», nel ‘66 con «Bella), dei tour in mezzo mondo, della sua seconda vita artistica benedetta da un inedito rigore e il marchio di Roberto De Simone, contano la vutata consegnata ai suoi eredi, la resurrezione di cantaNapoli regalata nel 1976 - lo stesso anno di «Napule è» - con «Carmela», definizione della sua amata città come «rosa, petra e stella».

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