Nel Trecento Napoli era la capitale del Regno di Sicilia, governato dai re della dinastia angioina, il cui massimo esponente fu Roberto il Saggio (1309-1343). Il suo lungo regno vide l’apice dello splendore della corte napoletana, soprattutto grazie all’impronta culturale che il sovrano le volle dare. Roberto, infatti, si impegnò personalmente nella produzione e nella promozione culturale, circondandosi di studiosi e artisti.
È in questo clima di effervescenza intellettuale che soggiornarono a Napoli i due grandi letterati del Trecento post-dantesco: Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
Petrarca conobbe personalmente Roberto quando, nel 1341, partì per un soggiorno a Napoli, così da poter essere esaminato dal sovrano prima della sua solenne incoronazione poetica, avvenuta lo stesso anno sul Campidoglio. Il rapporto con il re fu proficuo, benché breve (Roberto morì nel 1343), tanto che il letterato gli dedicò il suo poema in latino Africa, che riteneva essere il suo capolavoro, e lo citò con rispetto e riconoscenza nei Rerum memorandarum libri.
Con la morte di Roberto e la salita al trono di Giovanna I, quella Napoli che gli era parsa il luogo ameno che ogni dotto sogna per vivere solo dei propri studi, piombò in uno stato di profonda miseria morale (Familiares V, 1). Ne sono testimonianza una serie di lettere indirizzate al cardinale Giovanni Colonna (Familiares V, 3-6) quando, sul finire del 1343, fu inviato in città per questioni diplomatiche. In tale occasione, non trovò in città «nessuna pietà, nessuna verità, nessuna fede». I personaggi che la popolano sono gretti e violenti. Neanche i religiosi si salvano: peculiare è il ritratto di fra Roberto da Mileto: «un orrendo animale», piegato non dal peso degli anni ma da quello dell’ipocrisia, che forte del suo cipiglio è riuscito a dominare il Consiglio di reggenza. Ma a sconvolgere maggiormente il poeta è la violenza che pervade la città. Di notte le strade di Napoli, sono invase da giovani nobili pronti a ogni brutalità. Di giorno la violenza è, invece, alla luce del sole: nella zona di Carbonara si tenevano dei veri e propri scontri gladiatorii tra gli insani applausi degli astanti. Alla vista di un bel giovane ucciso, il Petrarca non può che fuggire inorridito da quello «spettacolo infernale» (Familiares V, 6). Gli unici momenti di gioia di questo secondo soggiorno sono le escursioni ai laghi d’Averno e di Lucrino e nei paesi del Golfo di Napoli: i meravigliosi paesaggi e la visita di quei luoghi dell’Antichità riportano Petrarca ai ricordi dei letterati classici da lui tanto amati (Familiares V, 4).
Meno dicotomica ma più difficile da interpretare è la Napoli di Boccaccio. Egli, proveniente da una famiglia mercantile, visse la sua gioventù tra le sale dorate della corte napoletana al tempo di re Roberto, iniziando il suo percorso letterario tra i volumi della biblioteca regia. Ad affascinare il giovane Boccaccio non furono solo i romanzi cavallereschi ma anche gli ozi e gli svaghi cortigiani. Tra le donne dell’alta società incontrò “Fiammetta”, figura in bilico tra topos letterario e realtà. Secondo una lunga tradizione, infatti, sotto il senhal di Fiammetta si celerebbe Maria d’Aquino, una figlia illegittima di Roberto, sulla quale, però, mancano dati archivistici e genealogici sicuri. Le avventure dell’allegra brigata cortese di cui faceva parte Fiammetta possono corrispondere a situazioni reali vissute dal Boccaccio: sono state quelle esperienze che hanno contribuito alla sua ispirazione letteraria, confluendo, dopo essere state opportunamente filtrate, in molte delle sue opere del periodo napoletano. L’ammirazione per questo periodo spensierato spinse Boccaccio ad adoperare il dialetto locale in una delle sue epistole (Lettera a Franceschino de' Bardi).
Contrariamente a quanto si riscontra in Petrarca, Boccaccio non indugia in descrizioni immediate di Napoli: nella sua produzione la città emerge sempre tramite il filtro della letteratura. Ad esempio, Benedetto Croce (Storie e leggende napoletane, a cura di G. Galasso, Milano 1990) intuì come nella novella di Andreuccio da Perugia (Decameron, II, 5) si rifletta profondamente l’ambiente napoletano. Nondimeno, in diversi luoghi dell’opera boccacciana possono individuarsi spazi, fatti e personaggi della Napoli angioina: peculiare a tal proposito è la vicenda di Raimondo de Cabanni, che da schiavo etiope riuscì a divenire siniscalco dell'ospizio reale, il più alto funzionario della casa del re. Altrettanto mirabile fu l’ascesa e la caduta di sua moglie Filippa: da umile lavandaia catanese alla corte angioina per finire sul patibolo con l’accusa di aver partecipato alla congiura contro Andrea d’Ungheria, sposo di Giovanna I (De casibus virorum illustrium IX).
Lasciare Napoli costituì un trauma per Boccaccio: quella città «lieta, pacifica, abbondevole, magnifica» restò per sempre nel suo cuore del letterato che a lungo rimpianse i giorni felici trascorsi con i rampolli dell’aristocrazia nei saloni reali.