L’anno 1638 presenta – senza dubbio alcuno – un’indiscutibile valenza nella storia sociale, geografica e geologica delle regioni meridionali, e in particolare della Calabria. La sequenza sismica che si verificò nell'arco di tempo intercorrente tra i mesi di maggio e giugno dell’anno in esame, in virtù della gravità dei danni inferti, nonché della vastità della zona oggetto della sciagura, non trova eguali, se non nel terremoto che colpirà la Calabria nel 1783, o in quello relativo al primo decennio del ventesimo secolo. Numerosissime sono le cronache, civili ed ecclesiastiche, dell’avvenimento, nonché le testimonianze dirette: è pertanto possibile delineare un quadro particolarmente preciso ed esaustivo delle conseguenze umane, sociologiche, economiche e sismologiche di una vicenda di tale portata. Secondo quanto riportano alcune testimonianze, il 27 marzo 1638, in concomitanza con il tramonto del sole, vi fu un’unica, fortissima scossa, i cui effetti sono attualmente inquadrabili nel livello undici della Scala Mercalli. Secondo quanto riportato da fonti differenti, invece, le scosse furono almeno tre, in sequenza, e si verificarono anche in data 28 marzo. Stando alle riflessioni dei sismologi contemporanei, è assai più probabile che le scosse verificatesi siano state molteplici (fra esse, in particolare, ve ne furono alcune che manifestarono spaventosa intensità). Le cronache dell’epoca furono particolarmente accurate nel dedicarsi alla descrizione dei danni che l’intero territorio calabrese fu costretto a subire, anche dal punto di vista prettamente idrogeologico e geomorfologico. Le realtà mediterranee erano infatti caratterizzate dalla presenza di vasti possedimenti terrieri, i quali erano di proprietà della nobiltà e del clero (seppur solitamente posti in usufrutto): questi ultimi erano soliti far misurare (con straordinaria esattezza, invero!) le proprie pertinenze territoriali e i relativi confini. Comparando la topografia precedente al disastro con quella posteriore, se ne ricava che il terremoto fu causa di profonde voragini nel terreno, del completo disseccamento di sorgenti, della deviazione di corsi d’acqua sotterranei e – quindi – superficiali, nonché della creazione di vaste aree paludose. Si riporta di una collina, la cui sommità “precipitò con inaudito fragore”. Lungo il litorale di Pizzo, inoltre, il mare, a causa di una fortissima scossa, “si ritirò per 2000 passi” (circa 3,7 km).
L’attuale Calabria era all'epoca parte integrante del Regno di Napoli, il quale era un caposaldo (culturalmente e geopoliticamente) fra i possedimenti spagnoli nella penisola italiana. Il Re Filippo IV, in particolare, aveva istituito un vicereame, con a capo il Duca di Medina de la Torres (Ramiro Felipe Núñez de Guzmán). La regione era stata divisa con una connotazione che perdurerà a lungo, praticamente fino all'unificazione d’Italia: la Calabria Citra e la Calabria Ultra.
Allorquando le notizie dell’immane disastro giunsero a Napoli, il Vicerè affido con rapidità ad Ettore Capecelatro, suo consigliere, “straordinari poteri”, affinché “si recasse nei luoghi colpiti dal terremoto”, e “con grandissima celerità” redigesse una “accuratissima historia” dei danni e delle vittime, stendendo, inoltre, per iscritto “possibili risoluzioni”.
Egli fu, insomma, un commissario straordinario a tutti gli effetti.
Capecelatro, recatosi sul posto, osservò acutamente che gli effetti del sisma, già - di per sé - devastante, risultavano incredibilmente aumentati dal fatto che la regione in esame era costellata di paesini, arroccati su colline “quasi a guisa di aquile”, con case “fragilissime”, poiché realizzate con ciottoli “tratti da fiumi”, o con “cruda argilla”, resa “secca et farinevole” dal caldo sole che illuminava la regione. Il computo ufficiale del consigliere parla di 9571 morti: 6811 “anime” in Calabria Citra, e 2760 in Calabria Ultra.
In realtà, la cifra è da considerarsi sottostimata: ben più attendibile è il numero di 30000 vittime, come indicato nella relazione del Duca di Medina “all'attenzione della santissima Corona spagnuola”: moltissime, infatti, le “[...]miserevoli creature che perirono per le ferite, gli stenti, la fame e misteriosi malanni”, nonché per la scomparsa di un non calcolato numero di “bestie da cui le locali popolazioni traevano e lavoravano latte, uova et formaggi”.
Si consulti in proposito la “Vera Relatione del spaventevole terremoto, successo alli 27. di marzo sulle 21.hore, nelle Provincie di Calabria Citra e Ultra”, Roma, Grignani, 1638. In questa pubblicazione si trova il resoconto “[...]di tutte le rovine causate nelle Città, Terre, e Castelli, con li nomi di essi, e con la morte delle persone”. Fondamentale è anche Lutio d’Orsi Belcastro, “I Terremoti delle due Calavrie, fedelissimamente descritti dal Signor Lutio d’Orsi Belcastro, come testimonio di veduta. Con l’aggiunta delle puntualissime e distinte relationi scritte dal regio sig. Consegliere Hettore Capeceletro”, Typ. Rob Mollis, 1640.